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Cardo Mariano, toccasana per il fegato

Il Cardo Mariano


"Se vuoi guarire dalle malattie di fegato (epatiche) berrai un distillato di cardo mariano, felce maschio ed erba cetraria. Ne berrai tre once il mattino (circa 100 gr.) ed il tuo fegato ritornerà sano e funzionale.

Se soffri di coliche epatiche e indolenzimenti alla milza e allo stomaco, causati da disturbi nervosi (o da stress) preparerai uno sciroppo a base d'erbe melissa, argentilla, radici d'ortica e more rosse: un cucchiaino di questo sciroppo farà scomparire i suddetti dolori".

Questi consigli botanici, risalenti al sec. XVI e tratti da "ricettari" perugini di quell’epoca, ci danno spunto per continuare a parlare del potere benefico delle piante officinali.

Ai nostri tempi la scienza medica ha confermato molte delle intuizioni contenute negli antichi ricettari ed Erbari illustrati dell'Italia centrale. Oggi, per combattere le insufficienze epatiche o disturbi funzionali del fegato, la fitoterapia mette a disposizione delle piante veramente efficaci quali la "Curcuma" (diffusa soprattutto in India e che contiene oli essenziali, di cui la curcumina è il componente essenziale, capaci di riattivare le funzioni della bile - azione colagoga - e combattere i disturbi dispeptici (cattiva digestione); il "Boldo" (albero alto 5-6 metri e originario del Cile) contiene la boldina (olio essenziale) molto efficace nel calmare crampi addominali e gastrici e facilitare la digestione.

Ma è efficace anche il "cardo mariano", riportato nell'antico ricettario umbro. Il codice botanico é "Silybum marianum" della famiglia delle Composite ed è diffuso in tutto il territorio della nostra regione. E' chiamato anche con i nomi di cardo di Santa Maria, cardo asinino, cardo lattato, card marinu, ecc. E' una pianta robusta, alta dai 30 cm. al metro e mezzo, con capolini di colore rosso-porpora e foglie grandi dentate che terminano in una spina gialla. Accanto alle nervature della pianta compaiono delle macchie bianche che, secondo la leggenda, sono gocce di latte della Madonna (da qui il nome di cardo di Santa Maria), cadute dal suo seno quando fuggiva per sottrarre Gesù alla persecuzione d'Erode.

La pianta del cardo mariano è molto nota nelle campagne della verde Umbria dove i contadini, fin dai tempi più antichi, se ne sono serviti per uso alimentare, mangiandone le foglie giovani come insalata, cuocendo le radici e i capolini in acqua o con altri ortaggi. La pianta intera, tritata, è data al bestiame e gli uccelli, nei campi, ne gradiscono i semi.

Il "cardo mariano", che era stato trascurato a vantaggio del "cardo santo" (Cnicus benedictus, delle Compsite), ha ripreso quota nella farmacopea ufficiale dei nostri giorni. Il cardo mariano, infatti, contiene una miscela di flavonoidi efficaci nell'insufficienza epatica e nei casi d'epatopatie alimentari. Questi flavonoidi, presenti nella pianta, sono capaci di proteggere le cellule del fegato, impedendo l'ingresso di sostanze tossiche nella cellula epatica, di stimolare la funzione del fegato e di esercitare una valida azione antiossidante sull'organismo.

A ragione gli sono attribuite proprietà colagoghe (aumenta l'escrezione di bile espulsa dalla colecisti), coleretiche (aumenta la secrezione di bile), diuretiche (facilita l'espulsione delle orine), toniche (aumenta il tono di alcuni organi: fegato, bile e milza, consentendo loro una migliore funzionalità).

Fonte il Messagero on line articolo di Salvatore Pezzella

Pubblicato da Amministratore di sabato 20 novembre 2004 alle ore 18:58

MENOPAUSA, ERBE PREFERITE AGLI ORMONI

Vai Alla Pagina sulla Menopausa


Da un sondaggio realizzato dalla clinica di Ostetricia con i medici di base emerge anche la richiesta di saperne di più. Molte donne temono gli effetti collaterali della terapia farmacologica ...
Le donne chiedono più informazione ai medici di base i quali a loro volta vorrebbero essere meglio preparati per dare le indicazioni adeguate e manifestano per gran parte perplessità a sottoporsi alle cure ormonale proposte. Nei confronti della menopausa le friulane non hanno un atteggiamento negativo, ma sono ancora molte quelle che vivono questa delicata fase della propria vita come una malattia.
È quanto emerge da un’indagine esplorativa della Clinica di ostetricia e ginecologia del Policlinico universitario realizzata attraverso i medici di medicina generale dell’azienda sanitaria 4, oltre ad alcuni delle Ass 3 (Alto Friuli) e 5 (Bassa).
I questionari compilati e restituiti che hanno permesso l’elaborazione dei dati da parte del dipartimento di Scienze statistiche di Udine fanno riferimento a oltre 14.600 pazienti dai 40 ai 60 anni. In presenza di una sintomatologia legata alla menopausa, il 44% delle donne si rivolge al medico di base; solo in parte minore fissa un appuntamento con il ginecologo o con un centro specifico; scarso è il ricorso ad altri professionisti, mentre è definita «significativa» la quota di coloro che, pur in presenza di sintomi e problemi, non fanno nulla.
Il sintomo che più preoccupa le donne in menopausa sono le vampate di calore (62% delle pazienti), seguite da sudorazioni e dalla richiesta di prevenzione dell’osteoporosi. Tra le donne che per questo problema fanno riferimento al medico di base, il 55% vi si rivolge per un aiuto generico, il 35% richiede direttamente il trattamento ormonale; su questa scelta influisce molto spesso il consiglio del ginecologo. La cosiddetta Hrt, terapia ormonale sostitutiva, è tuttavia motivo di preoccupazione per numerose donne. La quasi totalità (95%) di chi non le accetta, teme possibili conseguenze sulla salute, la paura più diffusa è il cancro al seno. Non pochi sono i casi di chi decide di sospendere l’assunzione di ormoni, spesso sostituendoli con una terapia alternativa.
«Una tendenza piuttosto diffusa commenta il professor Diego Marchesoni, direttore della clinica di ostetricia e ginecologia del Policlinico, nella quale è attivo da qualche anno un centro per la menopausa è il ricorso all’omeopatia e alle erbe, agli estratti naturali di soia o salvia in particolare. Questi estratti se possono essere efficaci nell’intervento sul disturbo soggettivo, le classiche vampate di calore, non hanno alcuna influenza invece nella prevenzione, ovvero su osteoporosi, rischi cardiovascolari, Alzheimer, distrofia genitourinaria».
Eppure lo scetticismo nei confronti della cura ormonale è ancora forte. «Vero, il timore dell’insorgere dei tumori al seno frena molte donne.
Noi, salvo taluni casi, vedi chi ha avuto una recente mastectomia, tendenzialmente consigliamo la cura ormonale. Si tratta di farmaci utilizzati in tutto il mondo, indispensabili per la prevenzione di cui accennavo e anche per curare la depressione. Importante resta comunque l’attenzione per lo stile di vita, dalla dieta, alla ginnastica, all’allontanamento dei fattori di rischio. Per un approccio ottimale, il ruolo dei medici di base è quanto mai rilevante».



Fonte Messaggero Veneto articolo di Paola Lenarduzzi

Pubblicato da Amministratore di sabato 20 novembre 2004 alle ore 17:33 Commenti (0)

Percorso Storico dell'Aloe

L'Aloe

L'Aloe, tra le molte piante di questo pianeta, vanta sicuramente una affascinante storia millenaria, testimoniata da molti testi antichi che ne documentano l'uso e le caratteristiche terapeutiche.

Definita pianta dell'immortalità dagli antichi Egizi, essa veniva piantata presso l'entrata delle piramidi per indicare il cammino dei Faraoni verso la terra dei morti; era utilizzata come ingrediente nella preparazione di sostanze per l'imbalsamazione (un caso per tutti, il Faraone Ramses II), sia in Egitto sia nell'antica Mesopotamia, ma era coltivata soprattutto ad uso terapeutico.

Sempre gli antichi Egizi, inventori del clistere, la utilizzavano come enteroclisma purgante, associandola ad altre erbe. Persino la Bibbia fa riferimento più volte a questa pianta; ad esempio nel Vangelo di Giovanni, capitolo 19 verso 39, leggiamo che Nicodemo realizzò una miscela di Mirra ed Aloe per preparare il corpo di Gesù per la sepoltura, e nei Salmi (45:8), le vesti dei Re sono profumate di Mirra e Aloe.

Si sa, inoltre, che gli antichi Assiri ingerivano il succo di Sibaru o Siburu (Aloe) per risolvere i disagi dovuti all'ingestione e alla formazione di gas intestinali. Non fu difficile per gli Assiriologi, infatti, identificare l'Aloe, nella decifrazione dei testi cuneiformi, sulle tavolette d'argilla ritrovate durante gli scavi in quella che doveva essere la biblioteca del re Assurbanipal (Dizionario Botanico Assiro di Thompson), laddove si poteva leggere: "Le foglie assomigliano a foderi di coltelli".
Nella cultura Maya, l'Hunpeckin-ci (Aloe) era considerato un meraviglioso rimedio per il mal di testa; il succo si preparava in infusione, e veniva bevuta diluito con acqua, mentre le donne Maya strofinavano il gel (dal forte gusto amaro) sui seni per imporre lo svezzamento ai loro bambini.

Nel 1° secolo a.C., sia Dioscoride, medico greco al servizio dell'Impero Romano, che Plinio il Vecchio, autore del famoso trattato "Historia Naturalis", descrivevano gli usi terapeutici del succo d'Aloe per curare ferite, disturbi di stomaco, stipsi, punture d'insetto, mal di testa, calvizie, irritazioni della pelle, problemi orali ed altri disagi.
Molto più tardi, anche Cristoforo Colombo, durante il viaggio verso il Nuovo Mondo, annotava nel suo diario: "Todo està bien, hay Aloe a bordo".
Sicuramente, diverse civiltà e vari popoli attribuirono a questa pianta anche poteri magici ed esoterici: ad esempio, secondo un testo cuneiforme accadico di oltre 4000 anni fa, l'Aloe, posta davanti all'ingresso di molte case, in particolar modo di nuova costruzione, assicurava lunga vita e prosperità ai suoi residenti; ancora oggi, in Egitto è considerata protettrice e portatrice di felicità se collocata presso le abitazioni.
Anche oggi, si può trovare all'interno dei negozi: qualcuno crede, infatti, che essa protegga il nucleo familiare assorbendo le energie negative portate da alcuni visitatori; un fiocco rosso attorno alla pianta, poi, serve ad invocare l'amore, mentre uno verde ad invocare la fortuna; in alcuni rituali, inoltre, è ancora utilizzata per il suo "potere energetico".

Ricercatori moderni
Questo breve tracciato storico, che contempla anche aspetti legati alla superstizione, dimostra come l'Aloe, da oltre quattromila anni, faccia parte della medicina popolare nella storia dell'umanità.
Ai nostri giorni, dopo essere stata relegata ad un posto di second'ordine, com'è avvenuto per la maggior parte delle piante medicinali a causa di un uso generalizzato dei farmaci moderni, l'Aloe è tornata a far parlare di sé, in particolar modo a partire dal 1851, quando due ricercatori, Smith e Stenhouse isolarono un principio attivo con proprietà lassative che essi chiamarono Aloina.
Nel 1935, Creston Collins e suo figlio rivelarono, in un rapporto divenuto poi celebre, il possibile utilizzo dell'Aloe per sopperire agli effetti devastanti delle radiazioni; così, da quel momento, molti scienziati presero in considerazione uno studio più approfondito di questa pianta.

Arriviamo alla fine degli anni '50, quando il farmacista texano Bill Coats riuscì a stabilizzare la polpa con un procedimento naturale: si aprirono, in tal modo, le porte alla commercializzazione per uso industriale di prodotti a base d'Aloe.
In precedenza i limiti erano posti dal problema dell'ossidazione del succo che non si conservava a lungo, alterandosi rapidamente una volta estratto a freddo dalla pianta. Alcuni ricercatori tentarono di risolvere il problema con l'esposizione del gel ai raggi ultravioletti, ma questo procedimento alterava la sua composizione chimica; si tentò inoltre con la pastorizzazione del gel a temperature superiori ai 60° dopo aver aggiunto perossido d'idrogeno, ma anche questo tentativo fallì.
Bill Coats fu il primo a realizzare un procedimento atto a conservare gli enzimi e le vitamine presenti nell'Aloe; tale procedimento consisteva nell'incubazione del gel con aggiunta di vitamina C (acido ascorbico), vitamina E (tocoferolo) e sorbitolo.

Il dottor G.W. Reynolds classificò, nel 1950, almeno 350 specie di Aloe; oggi, oltre 600 varietà di piante del genere Aloe, che appartenevano alla famiglia delle Liliacee, sono state classificate recentemente come Aloaceae.
Ben 125 specie sono state catalogate solo nel Sud Africa (inclusi lo Swaiziland ed il Lesotho), mentre le altre sono distribuite in ulteriori zone del continente africano, in Israele in India, in Pakistan, nel Nepal, in Cina, in Tailandia, in Cambogia, nei Caraibi, in Spagna, a Cuba, nell'America Centrale e del Sud, nell'America del Nord (Texas e Florida) e in Messico.
Il ceppo d'origine dell'Aloe, dunque, è da ricercare in (Reynolds, 1966).

Il suo habitat è tipico delle zone aride e desertiche e può raggiungere altezze che variano dai pochi centimetri ai venti metri, secondo la specie. Va chiarito che in botanica, in genere, si usa chiamare una pianta con la denominazione assegnata dall'ultimo studioso; per fare un esempio, l'Aloe Barbadensis o delle Barbados, di Miller, è il nome attuale dell'Aloe vera di Linneo e dell'Aloe Vularis di Lamarck.
Il termine Aloe ("Allo eh" in arabo, "Halal" in ebraico, "Alo hei" in Cina, Aloe nei paesi occidentali) deriva dalla radice greca "Als" o "Alos", che significa sostanza amara, salata come l'acqua del mare. I suoi fiori vanno dal bianco-verdastro, per esempio, dell'Aloe Integra dello Swaziland che fiorisce da ottobre a dicembre; dal rosa-aranciato dell'Aloe Zebrina (distribuita in Botswana, Namibia, Angola e Zimbabwe), con fioritura da gennaio a marzo e da novembre a dicembre, secondo il clima, al rosa più intenso, con tendenza al rosso, dell'Aloe Peglerae presente in Magaliesberg, Witwatersberg (Petroria), con fioritura da luglio ad agosto.

Le tre specie più conosciute
Vediamo ora, in dettaglio, confrontandole fra loro, le tre specie più conosciute: l'Aloe Vera Barbadensis, l'Aloe Arborescens Miller e l'Aloe Ferox. Va, innanzitutto, detto che l'Aloe Vera, così battezzata e descritta da Linneo, l'Aloe Barbadensis di Miller, e l'Aloe Vulgaris di Lamarck sono la stessa pianta.

L'Aloe Barbadensis deve il suo nome alle Isole Barbados, ma è anche presente nel resto delle Antille, nei Caraibi e soprattutto sulla costa nord orientale dell'Africa da cui probabilmente si diffuse.
Il problema del nome, è complicato dal fatto che Miller aveva a sua volta denominato e battezzato Aloe Vera un'altra varietà di Aloe, creando una certa confusione nell'ambiente botanico. Così, oggi, abbiamo sia l'Aloe Barbadensis, chiamata spesso Aloe Vera, sia un altro tipo di Aloe denominata Aloe Vera qualità Vera, per differenziarla dalla prima.
Confrontandole, però, è abbastanza facile distinguere la Barbadensis dall'Aloe Vera qualità Vera, pur senza essere dei botanici di professione: la prima ha le foglie raccolte intorno ad un rosone centrale, mentre l'altra ha le foglie sovrapposte.
L'Aloe Barbadensis può raggiungere un'altezza massima di 60-90 cm, e vive, in genere, cinque anni. Le sue foglie spinose possono raggiungere una lunghezza di 40-50 cm, con una larghezza alla base che varia dai 6 ai 10 cm. Queste foglie, maculate in fase di crescita, assumono un colore verde uniforme allo stato adulto, rivestite da una pellicola protettrice che permette alla pianta di filtrare l'aria e l'acqua.
Sotto questa membrana troviamo un primo strato cellulosico che racchiude cristalli di ossalato di calcio e le cellule pericicliche dell'Aloina, l'essudato giallo-rosato con proprietà lassative. Racchiuso in questa triplice protezione vegetale, troviamo il Parenchima, un tessuto incolore costituito dal gel della pianta così tanto ricercato. La qualità di quest'ultimo dipende molto dal tipo di clima e dall'irrigazione.
L'Aloe Arborescens, spesso confusa con l'Aloe Mutabilis, presenta le seguenti caratteristiche: il suo tronco può superare i due metri di altezza; le foglie vanno dal colore grigio - verde al verde chiaro e possono arrivare ad una lunghezza di 50, 60 cm. Il suo paese di origine è il Sud Africa. Chiamata anche Aloe del Capo (Cape Aloe), cresce spontaneamente nella provincia del Capo, nel KwaZulu-Natal, nel Mpumalanga e nel nord della provincia, nel Mozabico, nello Zimbabwe e nel Malawi. Oggi diffusissima in varie parti del globo, questa specie fiorisce da maggio a luglio e i suoi fiori possono essere gialli, rosa o arancio. Poiché contengono poca acqua, le foglie presentano una quantità maggiore di principi attivi.
L'Aloe Ferox, infine, è molto robusta e la sua altezza varia dai 2 ai cinque metri nelle piante più vecchie. Le sue foglie, molto carnose, hanno una tendenza di colore che va dal verde al grigio - verde, con spine di colore più scuro rispetto alla foglia. Presenta infiorescenze erette, con 5-12 fiori rosa - corallo disposti in verticale su un unico stelo; generalmente confusa con altre specie (A. Marlothii, A. Spectabilis), fiorisce da maggio ad agosto (nelle zone più settentrionali, invece, da settembre a novembre). È anch'essa originaria dell'Africa meridionale; in particolar modo, è diffusa nelle zone aride della provincia del Capo (est ed ovest), nel sud del kwaZulu-Natal e in alcune zone del sud-ovest del Lesotho.

Tratto da: Erbe.it


Fonti:
Queto, Sociedad Peruana de Cactus y Suculentas vol. 14-2000
Roys, Ralph L., 1931, "The Ethnobotany of the Maya"
New Orleans: Tulane University, Department of Middle American Research
Marc Schweizer, "Aloès la plante qui guèrit", Apophtegme
"Guide to the Aloes of South Africa" - Briza Publication 1996

Pubblicato da Amministratore di sabato 3 aprile 2004 alle ore 19:39

Passiflora, la pianta della tranquillità

Passiflora

Codice vegetale: fiore della passione; in francese: "fleur de la passion"; in inglese: "Passion flower". Di origine peruviana e brasiliana il fiore della passiflora è noto ed apprezzato in tutto il mondo non solo per la sua bellezza e per il simbolismo religioso, ma soprattutto per le alte virtù curative da farne, insieme alla valeriana e all'iperico, la pianta dell'armonia.
La passiflora è stata scoperta dal medico spagnolo Nicola Mornardis solo nella seconda metà del sec. XVI, perciò non compare negli Erbari figurati umbri di epoche anteriori. Lo stesso Mornardis, pur indicandola come pianta calmante, non ne fa alcun accenno nel trattato da lui scritto e pubblicato ad Anversa nel 1579: il "Simplicium medicamentorum ex nove orbe delatorum, quorum in medicina usus est istoria".

Monardes ci riferisce però che gli Indios delle montagne del Perù la consideravano un vero tesoro per il potere che la pianta aveva di calmare e di combattere l'eccessivo nervosismo. Ancora oggi in molti villaggi peruviani esiste la consuetudine di offrire all'interlocutore, prima un'accesa discussione, una tazza d'acqua del decotto di passiflora: l'effetto calmante è assicurato! In molti Erbari e testi di medicina tra il '500 e il '700 non si trovano accenni a questa pianta, anche se lo splendido fiore rientrava a far parte di molte farmacopee popolari.

Così non si ritrovano riferimenti alla passiflora nell'opera del grande studioso aretino Andrea Cisalpino nel suo trattato "de plantis libri XVI del 1583". Altrettanto si può dire spulciando certosinamente l'Herbario novo di Castore Durante (originario di Gualdo Tadino) redatto nel 1585 e quello del medico Dodonei datato 1616; né si trovano accenni sulla "passiflora" nell'Istoria plantarum universalis del medico Giovanni Baulino. Il "flos passionis" non figura nemmeno nei sei volumi dell'Erbarium Amboinense di Giovanni Burmanni del 1750.

Il motivo di questo silenzio va ricercato nel fatto che in primo luogo si è data - attraverso i tempi - molta importanza alla "valeriana" come pianta calmante e in secondo luogo perché tra ricercatori e studiosi dell'epoca si faceva strada il "concetto" della prudenza nell'utilizzo delle erbe medicinali.
Lo stesso studioso veneto Antonio Michiel, pur citando la passiflora quale "flos tranquillitatis" nel suo splendido Erbario o Historia generale delle piante, in cinque volumi, del 1550 e 1576 (conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia), affermava che "Simplicia cum prudentia utuntur", un detto di saggezza che volle utilizzare addirittura come "stemma" di famiglia.

Le felici intuizioni avute da questi studiosi del passato non potevano bastare nell'applicazione ed utilizzo delle piante curative, perché dobbiamo aspettare il sec. XVIII per la scoperta del potente strumento del telescopio da parte dell'anatomo patologo Marcello Malpighi e dare finalmente un maggiore impulso alla ricerca scientifica, sia in campo medico sia botanico, e lo scacco matto alle superstizioni del passato trasmesse agli Erbari d'epoca medioevale e rinascimentale.

Sappiamo in ogni modo, da Ottaviano Targetti-Tozzetti (nell'introduzione allo Studio delle piante), che la passiflora a Firenze era una pianta comunemente coltivata. E nel suo dizionario botanico del 1858 così la descrive: "La passiflora cerulea, fiore della passione, sempre verde e che sale vestendo muri e pergole. Vive allo scoperto e produce bellissimi fiori bianchi con fili celesti. Fa poi molti frutti ovati del colore dell'albicocca contenenti una polpa dolciastra e molti semi neri".
La passiflora è riportata in un Erbario figurato del Mattioli di fine sec. XVI. Intendiamoci, è noto che il nome dato alla pianta di "passiflora" con riferimento chiaro alla passione di Gesù Cristo, le sarà dato formalmente da Linneo solo nel 1696.

Ma dobbiamo aspettare più di un secolo per ottenere i primi studi sull'attività farmacologia della pianta che continuò ad essere oggetto di ricerca da parte di studiosi americani e italiani, proprio alla metà dell'800, che ne hanno esaltato le benefiche proprietà sedative e antispasmodiche possedute. Già il botanico Raimondo Antonio, nei suoi viaggi in Perù, studiò gli effetti salutari della passiflora contro eccitazione nervosa ed insonnia.

Il Messaggero on line: articolo di Salvatore Pezzella

Pubblicato da Amministratore di sabato 3 aprile 2004 alle ore 19:29

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